“Allora è così che finisce: un cartone, una coperta, uno zaino come cuscino. È così che si spegne una vita, che si consuma una esistenza. Nell’indifferenza, nel silenzio, nel riflesso di una luce al neon, nell’eco di un paio di tacchi che risuona lontano” Io sono nessuno – Wainer Molteni
Trailer del Film Documentario UN SACCO DI VITA
Vivere senza un tetto
La radio comunica la notizia dell’ultimo senzatetto morto a Milano, aveva settanta anni. Inizia così il viaggio notturno per conoscere un mondo che non vediamo o che tendiamo a non vedere. Passeggiando nel centro di Milano, infatti, accanto alle vetrine di Via Montenapoleone o nelle gallerie intorno al Duomo, è difficile pensare che proprio lì, sotto i porticati, accanto alle luci al neon dei negozi, vengano a ripararsi decine e decine di senzatetto, di persone che non hanno nulla tranne ciò che riescono a mettere nello zaino, nel trolley o in un sacco che portano sempre con sé.
Renato Vaccarella è uno di loro. Mentre il centro si svuota dei turisti e si accendono le luci sui tavolini dei caffè e dei ristoranti, lui prepara il suo giaciglio per la notte insieme ad altri quattro senzatetto. Hanno scelto una galleria vicino al Duomo di Milano, perché si sentono più sicuri, “perché non vengono a rubare” ci racconta. Renato ha scelto di farsi riprendere, di mostrare il suo volto. Nessun altro vuole farlo. Non è facile mostrarsi quando si è perso tutto, quando si teme di aver fallito, quando ci si sente soli, abbandonati da una società che appare indifferente.
Nel centro di Milano vivono persone che non vediamo
Un confine invisibile, infatti, sembra separarli dal resto del mondo, da noi altri che per strada siamo solo di passaggio, per andare a cena, al lavoro o per tornare a casa. Non li vediamo e le istituzioni a volte operano per non farceli vedere. “Soltanto un particolare, vengono a sgombrarci” ci racconta Renato. “Li chiamo fastidio” conclude. Nei talk show televisivi si parla di “decoro” per giustificare l’opera di “pulizia” del centro storico, come se i poveri fossero colpevoli di essere poveri, colpevoli di spezzare l’armonia del benessere, di disturbare l’occhio dei passanti e di non promuovere gli acquisti. Nessuna domanda su come reinserire queste persone nella società, né come offrire loro un supporto per rialzarsi, benchè si trovino in una città, Milano, ricca e dotata di un patrimonio immobiliare pubblico che conta oltre dodicimila abitazioni sfitte o inagibili. Le contraddizioni della nostra società emergono con evidenza, eppure il valore degli esseri umani resta ancorato alla loro capacità di produrre ricchezza, di essere utili cioè, al sistema della produzione e del consumo. Fuori da questo mondo si appartiene a un altro, invisibile al primo, benchè presente davanti agli occhi. Per superare questo confine, decido allora di seguire un gruppo di volontari che, su iniziativa di un ex senzatetto, Wainer Molteni, si ritrovano ogni settimana per distribuire indumenti, coperte e sacchi a pelo. “Il sacco a pelo è importante per un senzatetto, perché è tutto ciò che ha” ci dice Gianni Giupponi, uno dei volontari che presta il suo taxi per portare ciò che il gruppo distribuirà durante la notte. Il sacco a pelo evita l’ipotermia e costituisce un vero salvavita per chi dorme per strada, la differenza tra vivere o morire.
Il numero dei senzatetto a Milano è solo stimato, poiché è difficile censirli. Alcune fonti parlano di circa cinquemila, altre di oltre novemila nell’area metropolitana. C’è chi vive da molti anni per strada e chi ci è finito da poco, perché ha perso il lavoro o perché, pur lavorando, non può pagarsi l’affitto. Lasciati a se stessi, senza un supporto concreto delle istituzioni che non vanno oltre la lista dei dormitori e dei centri servizi di associazioni e onlus, finiscono per restarci in strada, per varcare il confine che li rende invisibili. “Dovrebbe essere un fatto transitorio e invece finisce per incancrenirsi, questo è il problema” spiega Wainer che ha conosciuto la vita in strada per otto anni e che accompagna il nostro viaggio nella notte di Milano. I volontari salutano Renato e proseguono il giro fra le gallerie attorno al Duomo alleggerendo i loro sacchi a ogni sosta, per ogni coperta, maglione o giacca che sono riusciti a donare. Renato e i suoi compagni aspetteranno l’alba per alzarsi, sistemare le loro cose negli zaini e affrontare un altro giorno, un altro difficile appuntamento con la vita.
Cemento e mura, vagoni e cavalcavia, sono tele per i graffiti. Lettere, scritte, firme, disegni, le impronte dei graffitari sono libera espressione o tracce dell’esistenza? Cosa li spinge a lasciare il segno? Arte o identità? Reportage sui graffiti, segni dalle radici lontane, detestati da alcuni e amati da altri, per comprendere qualcosa in più delle loro tracce.
___________________________
Appaiono d’improvviso. La sera prima non c’era nulla e ora vedo un disegno sul muro. A guardar bene è un sequela di lettere colorate, fiammeggianti, toni decisi e armoniosi. Una firma, una grande firma sotto il viadotto ferroviario. Sono graffiti, tracce sulla strada, segni di una presenza.
Qualcuno li detesta e ufficialmente sono vietati, ma io ne sono stato sempre attratto e una sera, passando sotto il viadotto ferroviario, ho visto qualcuno che stava abbozzando un graffito e mi sono fermato.
Dopo aver tracciato qualche linea si è arrestato a pensare. Un passo indietro per osservare l’insieme ed è ripartito con la bomboletta in mano. Ogni traccia, ogni striscia di colore aveva un suono, il sibilo del gas che fuoriusciva dalla bomboletta. Breve, intenso, lungo, parallelo ad ogni pennellata.
Il nudo cemento sotto il viadotto è stato giudicato “libero” dal Comune di Milano e molti graffitari sono già passati per riempire ogni suo centimetro disponibile, ma non sempre è così. Il graffito, il segno, la traccia, ha radici lontane e ha sempre espresso il bisogno di affermare la propria presenza, di marcare la propria identità e il territorio in cui si vive, spinti da esigenze diverse di tempo in tempo, ma sempre connesse alle condizioni sociali, al senso di inclusione ed emarginazione, alla necessità innata dell’essere umano di affermare il dogma “io sono, quindi esisto”.
Nel tempo della realtà digitale che ha modificato la percezione del tempo e dello spazio rendendoci l’illusione di un eterno presente nel quale siamo tutti connessi, i graffiti sembrerebbero relegati a pratiche del passato, quando la realtà era unicamente fisica, concreta come un segno sul muro, ma la loro presenza e rinascita, ci dimostra il contrario e ci induce a riflettere sulla c.d. “società liquida”, termine coniato da Zygmunt Bauman per indicare una società, quella moderna, nella quale ciò che conta è solo il consumismo e l’apparire a tutti i costi, sospinti da un individualismo sfrenato.
In un mondo che ha perso le sue certezza, che non ha più comunità né idee, il liquido presente genera stagnazione del pensiero, senso di emarginazione, di esclusione dal gruppo, di sconfitta nella globale competizione individuale.
I graffiti, che si possano giudicare legali o illegali, forme di arte o pura espressione, contengono tutto questo e il loro apparire mi ricorda che gli esseri umani restano animali sociali e, pertanto, manifestano malessere a vivere senza radici, senza spiritualità, senza comunità, senza identità, senza il tempo e lo spazio.
Nonostante siamo indotti a credere che tutto questo non serva più, che grazie al nostro smartphone possiamo accedere a tutto e adesso, senza intermediari, senza filtri, senza competenze, senza fatica, la realtà è diversa e il vero rischio della iper-connessione sembra essere piuttosto quello di perdere la connessione con la dimensione reale, quella in cui le cose si costruiscono, segno dopo segno, come fa il graffitaro davanti a me.
Si chiama Antoine e viene dalla Francia, vicino Parigi. Forse perché straniero, ha meno diffidenza nel parlare e nel lasciarsi intervistare. Del resto, non tutti i muri della città sono dichiarati “liberi” e lo stato giuridico d’illegalità nel quale spesso si trova chi produce graffiti altrove, rende molto prudenti i graffitari.
Antoine mi racconta il suo inizio e mi parla dei suoi progetti, mentre i treni scorrono sopra le nostre teste. Vuole divertirsi e comunicare qualcosa alla gente che vedrà la sua opera. Qualcosa che riguarda il percorso che ognuno di noi fa nella vita, tra alti e bassi, speranze e delusioni. Viene da Malta dove ha realizzato un’opera su un muro e dove ha conosciuto altri writers. Fa freddo ormai, ed è ora per Antoine di indossare i guanti.
“L’alluminio delle bombolette è freddo e il gas che esce lo è ancora di più” mi dice sorridendo.
Ha molto entusiasmo Antoine e la sua passione mi permettere di sentire cosa dice, di voler capire di più.
“Domani c’è l’ultimo giorno del Graffiti BlockParty a Milano” aggiunge.
Qualcuno dice che niente accade per caso, e in certe occasioni viene proprio da crederci. Traverso la città con Antoine per raggiungere il Ponte della Ghisolfa. Sotto gli echi del traffico perenne, una squadra di graffitari si ritrova per completare le opere disegnate sulle mura di un altro angolo di Milano dichiarato “libero”.
In barba alla società liquida, i graffitari che incontriamo sono comunità. Un caffè per riscaldarsi, una stretta di mano per conoscersi, e le mura prendono colore. Alcuni di loro rispondono alle mie domande, ma non desiderano apparire. Vogliono solo lasciare la loro traccia sullo spazio di una parete sino al tempo in cui una altra traccia la coprirà.
A chi non capita oggi di fare una foto? Basta accendere il proprio cellulare, selezionare l’applicazione e poi inquadrare il soggetto. Il programma elettronico ricrea perfino il suono del click che fanno le macchine fotografiche per trasmetterci l’emozione dello scatto. Bella o brutta che sia, perfetta nei pixel o nella esposizione, la fotografia ci ha conquistati dalla sua nascita, risponde allo stesso bisogno umano che generò i graffiti sulle rocce, che scolpì le pietre, che affrescò mura e dipinse tele bianche. Il bisogno di comunicare, di rappresentare, di emozionare, di manifestare l’immaginazione, di esplorare noi stessi.
Viaggio nel Parco Nazionale dell’Aspromonte con il gruppo fotografico Fata Morgana alla scoperta di luoghi e paesaggi per amore di uno Scatto.
ROGHUDI (RC) – Vengono chiamati “paesi fantasma” e ognuno di essi ha la sua storia. Le strade vuote, le case diroccate, i resti di ciò che fu vita un tempo risuonano nel silenzio, interrotto dal calpestio dei cocci allorquando violiamo il loro lento appassire. Si prova quasi pudore nel farlo, come se entrassimo senza permesso nella vita degli altri, senza bussare alla porta. Ma la porta non c’è più e la cornice di legno è ormai consumata dalla pioggia e dal vento. Ciò che resta è la nostra curiosità, il bisogno di scoprire e di rappresentare a nostra volta, di musicare magari, oppure scrivere o fotografare, poiché, che se ne sia consapevoli o meno, nasciamo tutti artigiani, capaci di limare le pietre così come di immaginare ciò che non si vede.
Penso questo, mentre mi aggiro fra i ruderi di Roghudi insieme al gruppo fotografico Fata Morgana. Cerco di catturare delle immagini mosso dalla stessa curiosità dei miei amici, giunti sino a lì per amore di uno scatto. Il panorama è superbo e la luce intensa. Il paese, arrampicato su un rupe di arenaria ai margini della fiumara Amendolea, richiama alla mente i disegni di Edward Lear eseguiti durante il suo viaggio in Calabria nel 1847, o le pagine scritte da Corrado Alvaro sulla vita in Aspromonte, ma ciò che ognuno di noi vede dall’occhiello della fotocamera è diverso, unico. Corrisponde al proprio punto di vista, a ciò che gli occhi vedono col cuore, con l’emozione improvvisa che cattura un istante.
Un vecchio pergolato è sopravvissuto in un angolo del paese e alcuni grappoli d’uva pendono dal tetto di rami e vecchie travi di legno. Il pendio è ripido oltre il muretto di pietra e si sente il suono dell’acqua scorrere in fondo, fra le rocce e gli arbusti che ricoprono le alture intorno. La vita da queste parti non è stata certo facile, ma necessariamente dura per difendersi dalle incursioni sulle coste dei saraceni prima e per sopportare, poi, la povertà indotta dal grande latifondo che dominò il sud sino al 1959. Come sappiamo, l’unità d’Italia non liberò il popolo del sud, ma poggiò proprio sulla conservazione dello status quo dei vecchi baroni e dei loro latifondi.
Roghudi – vista sulla fiumara Amendolea
Ma Roghudi non si trasformò in un paese fantasma per questo. La sua storia cambiò d’improvviso, più velocemente di quanto l’emigrazione all’estero o nel nord d’Italia potesse fare. Per timore di cedimenti e crolli, il paese fu evacuato intorno al 1970. Le case furono chiuse e col tempo abbandonate. I ganci di ferro alle sue mura, a cui si narrava venissero legati i bambini perché non cadessero nel dirupo sottostante, si arrugginirono e la testa del Drako in cima alla collina smise di difendere il suo tesoro dalle minacce degli avidi malvagi. Roghudi si spense nel silenzio e le sue leggende si persero nel vento che continua a soffiare sulla fiumara.
Ora ci sono i nostri passi sui suoi sentieri. Un sole caldo ci accompagna insieme al canto dei grilli su per la Rocca del Drako. I suoi occhi ci guardano indifferenti. Il suo tempo non è il nostro e la sua magia durerà per molto ancora. Salgo sul crinale per raggiungere Francesco e Domenico. Da lì si vede lontano e la testa del Drako pare un gigante fra giganti. Ora lo vedo anch’io dall’occhio della telecamera e non resisto. Schiaccio rec, e anch’io tento di catturare quell’istante.
Roghudi
Quell’istante, ora, è già passato, è già immagine, è già quadro, è fotogramma di un dettaglio, somma di contrasti, di ombre, luci e colori che rivelano qualcosa, che raccontano un viaggio e un tempo, quello delle emozioni che tentiamo di catturare come fossero fiori che non appassiscono mai.
Alfredo Comito
Ringraziamenti – Si ringrazia il gruppo fotografico FATA MORGANA D.L.F. di Reggio Calabria. In particolare, Federico Santo, Labate Domenico, Laganà Francesco, Laganà Laura, Orlando Antonella, Sgrò Silvana, per la disponibilità, e generosità con le quali hanno contribuito alla realizzazione del reportage.
Confinamento, resilienza, quarantena, autocertificazione, R con zero, mascherine, FFP2, eroi… Cosa ci lascia l’esperienza della pandemia? Siamo un po’ cambiati o stiamo tornando come prima? E prima com’era? Reportage su una storia di solidarietà nata, come tante altre, dalla volontà di aiutare il prossimo, di non restare indifferenti, di non aspettare inermi la fine di una crisi sanitaria e sociale che fa già parte della storia dell’umanità.
Reportage – durata 12 minuti
Segrate (MI) – Siamo nel pieno della pandemia, coi bollettini medici che misurano la crescita dei contagi e con l’esercito inviato nelle aree più colpite per trasportare le bare dei morti e per mettere in piedi ospedali da campo. La zona rossa è tutta Italia. Le strade sono deserti di asfalto e il silenzio domina lo spazio oltre le nostre finestre. Ogni tanto si ode la sirena dell’ambulanza che risuona come un allarme aereo prima del bombardamento. Ma le bombe che cadono non fanno rumore, né distruggono le case. In silenzio colpiscono le persone a centinaia, a migliaia, lasciandole sui letti degli ospedali o delle case di riposo. Allo stesso tempo, senza alcun fragore, svuotano le dispense di molti altri, rompono i salvadanai, disperdono la speranza, incatenano alla miseria, al bisogno di aiuto. La Lombardia è la regione più colpita e Milanononsiferma si trasforma subito Milano S.O.S.
CSA Baraonda – Segrate (MI)
Così, mentre gli infermieri, i medici e tutti i lavoratori ritenuti indispensabili sfidano il contagio, nelle periferie della città e della metropoli nascono le Brigate di solidarietà che si organizzano per raccogliere e distribuire beni d’ogni genere a coloro che la pandemia ha reso più poveri di prima, senza lavoro né cassa integrazione. Il “Pane quotidiano”, storico centro di aiuti milanese per i più indigenti, è ormai chiuso e non riesce più a rispondere ai bisogni di tutti i suoi utenti. Serve qualcuno che distribuisca porta a porta, che raccolga le domande e organizzi il servizio. Serve un centralino e una banca dati, serve collegare chi dona a chi riceve, serve entusiasmo e buona volontà, generosità e coraggio. A Segrate, nei pressi dell’aeroporto di Linate ormai silenzioso quanto il viale che lo collega al ventre di Milano, un gruppo di ragazzi del Centro Sociale Autogestito Baraonda, si ritrovano con il medesimo desiderio. Fare qualcosa, aiutare chi ha più bisogno. Di Segrate era anche il giovane Arcide Cristei che, poco più che diciottenne, rischiava la propria vita per portare i viveri ai partigiani. Nessun fucile per lui. Le sue armi erano la velocità e il coraggio, ciò che i ragazzi hanno quando occorre agire per una causa, per un ideale, per un sogno che si vuole realizzare. Arcide cadde in un agguato fascista, ma il suo coraggio ritrova vita nei cuori dei ragazzi del CSA Baraonda.
Brigata Arcide Cristei
Brigata Arcide Cristei, questo sarà il loro nome. Nessun fucile neanche per loro, ma solo gambe e coraggio. “La normalità era il problema è lo slogan perfetto” dice Johanna alla fine della nostra chiaccherata. “Spero di migliorare quella che prima era normalità, perché tutte le problematiche che ci sono adesso non sono solo ed esclusivamente a causa del virus” aggiunge. “Spero vivamente che non si torni alla normalità precedente, ma a una nuova normalità” conclude. Di sicuro le cose sono già cambiate, e ancora più cambieranno nei prossimi mesi. Se poi sarà in meglio o in peggio, ancora non lo sappiamo. Ci vorrà tempo per vedere, ma parlando coi militanti della Brigata ho capito una cosa. Date la possibilità ai giovani di fare qualcosa e il mondo cambierà realmente, perché appartiene a loro l’energia del futuro. E di questo, ne son certo, ne è sicuro anche Arcide Cristei.
Cronaca di una giornata di denuncia e di rabbia che ha rotto il silenzio degli invisibili, dei lavoratori che sino a ieri erano indispensabili e che oggi sono già tornati ai margini della società.
Copertina del reportage di Zerocalcare
Milano 27 maggio 2020 – Sotto il grattacielo sede della Regione Lombardia, la più colpita dalla pandemia, si sono radunati sindacati di base, organizzazioni politiche, associazioni milanesi e centinaia di lavoratori. Oltre 700 tra operatori dei supermercati, degli ospedali, della logistica, della scuola, del turismo, delle RSA, che hanno protestato per le difficili condizioni in cui si trovano. Dagli invisibili del turismo, con contratti spesso legati agli appalti di aziende e cooperative, che dalla metà di agosto rischiano di perdere il lavoro (a meno che il Governo non proroghi il blocco dei licenziamenti), sino agli infermieri del San Raffaele che non navigano in acque migliori. Il turismo non esiste più nel capoluogo della Regione simbolo del dramma Covid-19, quella su cui gravitano le accuse più forti e le polemiche più accese. Non ci sono più fiere, flotte di agenti commerciali e clienti che affollano le vie degli affari e gli hotel. Non ci sono più eventi, vip veri o presunti che fanno il pieno nei locali, non ci sono più selfie e bus notturni affollati. Non c’è più l’emergenza, non c’è più bisogno dei 50 posti letto ricavati nella Fiera di Milano al costo 21 milioni di euro, non c’è più necessità di medici meridionali, cubani, appena laureati, non c’è più l’urgenza di assumere.
Infermieri del San Raffaele – Milano
La rabbia dei lavoratori la leggi sui volti, così come la speranza di far sentire la loro voce, quella che in questi lunghissimi mesi di confinamento non abbiamo mai udito così forte, così presente da superare per qualche minuto quella dei protagonisti che appaiono di continuo sui giornali e nei mass media, che ci spiegano come va il mondo, come utilizzare i fondi dello Stato, quali aiuti europei scegliere e come far ripartire il Paese. In queste lunghe settimane, essi sono divenuti personaggi, primi attori di un racconto quotidiano che ha reso alcuni credibili e altri inaffidabili, che ha dato luce a chi era ai margini e ombra a chi stava al centro dell’attenzione, e ognuno si è ritagliato una fetta, chi prima chi dopo, ma chi è rimasto fuori, senza volto e senza palcoscenico, sono altri, sono quelli che hanno continuato a lavorare per qualche euro a consegna come i raider o quelli che sono rimasti senza lavoro e senza cassa integrazione. Sono le migliaia di false partite iva che vestono il camice bianco negli ospedali, come gli infermieri e gli operatori sanitari che non sono mai stati assunti direttamente, ma che lavorano per cooperative che di cooperativo hanno ben poco. Sono gli immigrati, additati prima come responsabili del disastro di un Paese disastrato da sè, e spariti poi dall’orizzonte della paura durante la pandemia, quando continuavano a lavorare nelle campagne o nei grandi magazzini della logistica per farci arrivare il cibo ben confezionato sugli scaffali dei supermercati. Sotto il palazzo della Regione, i lavoratori classe “economy” della società, quelli che non si consideravano indispensabili prima del Covid-19, hanno alzato la voce e si sono fatti sentire. In attesa di un incontro con qualche rappresentante della Regione (che non c’è stato), la gran parte dei lavoratori si è poi spostato sulla strada e ha invocato un corteo. Dopo quale momento di tensione con le forze dell’ordine, i lavoratori sono riusciti a evadere il cordone di uomini e mezzi della polizia e hanno percorso un breve itinerario intorno al grattacielo della Regione. Oltre il tavolo delle decisioni, oltre i battibecchi in Parlamento, al di là dei protagonisti dei mass media, la Fase 2 è anche quella delle piazze, della rabbia che covava in silenzio, degli eroi che ora si incazzano.
Come ripartire da una crisi economica e sociale così grave? Tornare a produrre come prima o ripensare il modello di sviluppo? Le nostre priorità sono le stesse di prima o sono cambiate? Come convivere con il Covid-19 e come garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro?
Le domande sono molte e le risposte dipenderanno dal conflitto che si è aperto in Europa e che si sta sviluppando in Italia. La Confindustria, con il suo Presidente Carlo Bonomi, ha già preso posizione. Più “soldi” alle imprese, meno tasse e sospensione dei contratti nazionali di lavoro. Abbiamo intervistato Mattia Scolari, Segretario della CUB Milano, e ascoltato le sue risposte. La Fase 2 è appena iniziata, ma è già conflitto.
Presentata come poco più di una influenza, l’onda del Covid-19 ha travolto tutti e si è dimostrata per ciò che è. Una pandemia provocata da un virus aggressivo e sconosciuto che ha causato oltre 30 mila morti in Italia. Durante le lunghe settimane di isolamento, molti hanno patito la chiusura delle attività, altri la perdita del lavoro, altri ancora la assoluta mancanza di un reddito, e altri, invece, hanno continuato a lavorare con scarse misure di sicurezza per proseguire quelle attività che sono state ritenute essenziali. Sono stati appellati eroi, richiamati nelle pubblicità, citati dai parlamentari e ringraziati dal Presidente del Consiglio Conte, ma dopo quasi tre mesi, all’alba della Fase 2, la cosiddetta “ripartenza”, scopriamo di averli quasi dimenticati. Davanti alle misure economiche disposte dal Governo sono magicamente riapparse tensioni politiche, veti e divieti, polemiche in tv e assalti alla diligenza.
Il tempo degli “eroi” è già finito
Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, ha duramente criticato le misure di sostegno al reddito disposte dal Governo per i lavoratori in difficoltà, dalla Cassa integrazione al Bonus per gli autonomi, perché ritenute dispersive, o meglio, perché sono una “distribuzione di denaro a pioggia”. E vuole essere preciso Bonomi, “si badi bene, si tratta di soldi presi a prestito”. Secondo il Presidente di Confindustria, invece, lo sforzo economico dello Stato andrebbe concentrato sulle imprese attraverso interventi fiscali e finanziari. In altri termini, più soldi a fondo perduto e meno tasse. Intanto, FCA, quella che un tempo chiamavamo FIAT, ha subito presentato domanda per 6 miliardi di euro di prestito garantito dallo Stato, nonostante abbia spostato la sede legale in Olanda e quella fiscale in Inghilterra, e nonostante abbia drasticamente ridotto la produzione di auto in Italia, superata nell’ordine da Regno Unito, Francia, Spagna e Germania, prima nella classifica europea. Pare evidente come, se a reclamare aiuti economici sono le imprese, i “soldi presi a prestito” non sono più un problema. Del resto, se il peso di quei soldi e delle loro garanzie ricadrà sul debito pubblico (oggi salito oltre il 150%), e quindi sulla collettività, è evidente che non costituiscono più un problema per gli industriali. In fondo, a pensarci bene, dipende tutto dal proprio punto di vista.
Jhon Elkann – Presidente di FIAT Chrysler
Quello di Bonomi è chiaro. Investire sul sistema produttivo. Bisogna concentrare gli sforzi. Bisogna recuperare il prima possibile livelli di produttività e mercati, e per questo Bonomi è pronto a sospendere i Contratti di Lavoro Nazionali per addivenire ad accordi azienda per azienda, secondo il modello Marchionne per intenderci. “Il Governo agevoli” un confronto in questo senso, arringa Carlo Bonomi intervistato dal Sole24Ore e dal Corriere.it., “per ridefinire turni, orario di lavoro settimanale (…) in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali”. Insomma, la ricetta che presenta Bonomi è quella di aiutare le imprese perché esse aiuteranno la crescita, quindi l’occupazione, quindi il PIL. Mancano solo due parole perché sia perfetta. Dovere e sacrificio. Ed ecco che Bonomi le pronuncia. Ci aspetta, dice, “una stagione di doveri e sacrifici”. E allora sarebbe una ricetta ancora vendibile se non fosse, però, che sa di usato. Infatti, è una ricetta già ascoltata, anzi più volte ripetuta, l’ultima nel 2010, a seguito della crisi finanziaria del 2008. Rigore e sacrifici, tagli e flessibilità, pensioni e art.18, grandi opere e sostegno alle imprese. L’arcobaleno poi, è sicuro, tornerà a risplendere per tutti. Purtroppo, è arrivato il Covid-19 e ha rovinato la festa, proprio quando stavamo stappando la bottiglia. Qualcosa di simile, ricordo, accadde anche nella seconda metà degli anni ’90, quando il Governo Prodi ci condusse alla moneta unica europea, nel recinto dei suoi parametri. Staremo meglio e lavoreremo meno, annunziava con pacatezza. Anche allora era prevista una Fase 2. La prima, fu quella dei sacrifici. La seconda, invece, non arrivò mai. Cadde il Governo e non si seppe mai dove finì l’arcobaleno. Di certo, questa volta Conte ha cercato di non dimenticare nessuno nella lista degli aiuti di stato durante l’ultima messa in onda. Le misure sono ingenti, ma probabilmente insufficienti se consideriamo le condizioni del Paese. L’Italia paga oltre 30 anni di smantellamento del sistema pubblico, dalla Sanità alla scuola, dai trasporti alle infrastrutture, registra Il più basso tasso di investimento in Europa su ricerca e università, perni fondamentali per il futuro, ha visto la perdita della grandi aziende, perché hanno spostato la sede legale e fiscale all’estero o perché hanno ceduto il passo alle multinazionali straniere nella logica della globalizzazione. A questo va aggiunto il grave peso della evasione fiscale e delle infiltrazioni mafiose che inquinano il tessuto sociale ed economico con alte perdite per i bilanci dello Stato e per la reale competitività delle imprese.
“Andrà tutto bene” se…
Dunque, ora bisognerà ricostruire oltre che ripartire, perché le cose possano veramente andare bene come scritto sui lenzuoli appesi nelle prime settimane sui balconi di tutta Italia. Bisognerà ricostruire una sanità pubblica che salvaguardi il diritto alla salute dei cittadini. Altrettanto andrà fatto sulle scuole, imbottite di insegnanti precari e povere di mezzi, con edifici vetusti e non a norma, con aule sovraffollate che non potranno riproporsi. Bisognerà sostenere chi ha perso il lavoro, chi non ha più reddito, chi non vuole più morire sul lavoro e chi lavora senza alcun contratto e paga garantita. Bisognerà salvare il sistema produttivo nel suo insieme per evitare il pericolo di una ulteriore esplosione della disoccupazione e delle povertà, che azzererebbe i consumi innescando un circolo vizioso ed estremamente deleterio. Se a tutto ciò aggiungiamo la questione climatica, per niente svanita dall’orizzonte degli eventi, il quadro è molto più che difficile. Le foto satellitari hanno dimostrato come la regione più inquinata di Europa, la pianura padana, abbia registrato un significativo calo delle polveri sottili durante il periodo di arresto e confinamento. Sia ben chiaro, non tutto si è fermato, soprattutto in Lombardia, ma è evidente dai dati che la qualità dell’aria tendeva a migliorare e con essa, anche la salute dell’ambiente.
Insomma, bisognerebbe anche pensare a cosa produrre, avere il coraggio di cogliere questa drammatica esperienza collettiva per ripensare alle priorità e agli equilibri del sistema, per immaginare un nuovo modello di sviluppo, più equo e rispettoso dell’ambiente. È questo ciò che si ode dal basso, dai quartieri, dalle assemblee virtuali dei lavoratori, degli insegnanti, delle associazioni che in questi mesi si sono fatte carico di reperire soldi e cibo per distribuire pacchi alimentari. Sì, l’Europa ha fatto un passo, di lato, alla faccia dei rigidi parametri sul deficit e alla faccia della austerità. Un fondo comune per i lavoratori che hanno perso il lavoro, meno regole sul MES utilizzato per investimenti sulla sanità, un debito condiviso, il Recovery Fund, ancora da definire, ma di certo oltre ogni ipotesi prima della pandemia. Ma questo passo, a guardarlo bene, appare come l’atto di un conflitto in seno alla UE, come uno scontro fra due stili di capitalismo, tra coloro che difendono la rigidità dei parametri monetari per favorire la concentrazione del potere economico in una ristretta area del continente, e chi, invece, vuole liberarsi della austerità per ridare fiato al progetto della UE e alla sua politica di crescita economica, al fine di poter contare nello scontro con le grandi potenze economiche. Insomma, gli uni e gli altri perseguono fini diversi, ma con gli stessi strumenti. Produttività, flessibilità, consumi, profitto, conquista dei mercati, egemonia economica. Proprio ciò che una larga parte della società ha messo in discussione, sebbene nel silenzio del confinamento. Il ricordo dei morti, degli errori, degli eroi e dei caduti, è ancora vivo, fresco nella memoria di molti, tra i tanti che in questi giorni hanno ripreso a lavorare o ci stanno provando.
Il coraggio di cambiare
Vive la consapevolezza che questa esperienza definisce un prima e un dopo, che le scelte che si faranno saranno determinanti per la qualità della vita di tutti e che la vita stessa è un dono a cui tutti teniamo. Un dono che dovrebbe aiutarci a ripensare il modello di sviluppo, che dovrebbe interrogarci sul dove vogliamo andare tutti insieme, che dovrebbe indurci a definire nuove priorità, a cambiare il punto di vista. Insomma, è giusto che gli eroi tornino ad essere precari sconosciuti con salari da fame? Possono le grandi imprese chiedere ingenti aiuti economici allo Stato e poi pretendere che lo Stato non apra bocca sulla sicurezza dei lavoratori e sulle scelte delle aziende? In conclusione, è possibile vivere andando oltre l’idea di produrre per accrescere i consumi? Come davanti a un bivio, quale strada imboccheremo dipenderà dai rapporti di forza che si manifesteranno nel conflitto già in essere. Carlo Bonomi ha già disposto gli scudi a testuggine come i romani, forte di un gruppo coeso. I lavoratori e i disoccupati, i precari, gli artigiani e i piccoli commercianti, sono dispersi, divisi e parcellizzati. Contano poco singolarmente sia innanzi al mercato sia davanti alla politica. A gruppi sparsi sono già apparsi nelle piazze. Distanziati, silenziosi, coi cartelli nelle mani. Ma è ancora presto per capire come andrà, se avranno la forza di fare massa o se resteranno divisi, separati da una etichetta che li definisce diversi, sebbene le loro condizioni sociali e materiali si somiglino molto, così tanto che nel ‘900 qualcuno li avrebbe appellati come “classe”. Per il momento, si registra un solo punto in comune con Carlo Bonomi. Come lui stesso afferma, i programmi definiti prima della crisi fanno riferimento ad un “mondo che non esiste più”.
25 APRILE 2020 – Nonostante i numerosi tentativi di riscrivere la Storia, di mutarne il senso trasformandola in Festa della Libertà anziché della Liberazione, nonostante il Coronavirus e il confinamento, il 25 Aprile resta un giorno importante e vivo nella memoria popolare. Il giorno in cui si ricorda il sacrificio dei Partigiani che, lottando per la Libertà di tutti, hanno ridato dignità ad un Paese sconfitto e posto le basi della Democrazia con la Costituzione antifascista che assegna ai lavoratori la Sovranità. Non siamo ancora giunti ad essa, ma la storia ha insegnato che nessuna conquista è stata facile e immediata. Torneremo a cantare Bella Ciao e riprenderemo il cammino che ci hanno indicato i Partigiani.
FASCISMO e ANTIFASCISMO sono retorica del passato o attualità? Propaganda o fatti concreti? E sotto quali vesti agiscono oggi? La vertenza dei braccianti di una azienda agricola di Guazzora (AL) che reclamavano da mesi il pagamento degli stipendi, ha registrato l’intervento dei militanti di CasaPound che si sono schierati a favore dell’imprenditore e contro lo sciopero dei dipendenti. Un fatto di cronaca attuale che richiama pratiche e scenari del passato, quando gli squadristi attaccavano le organizzazioni dei lavoratori nella indifferenza delle istituzioni e del Re.
Ancora oggi in Italia si festeggia il 25 Aprile, il giorno della liberazione dal fascismo e dalla occupazione nazista, ma per molti è solo l’occasione di una gita fuori porta, una festa come un’altra. L’ex Ministro della Gioventù dell’ultimo governo Berlusconi, Giorgia Meloni, ha dichiarato di recente che vorrebbe sostituire il 25 Aprile con il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, perché la festa della Liberazione sarebbe una “festa divisiva”.
Forse tutto ciò ci può apparire folclore, roba da nostalgici o argomento distante dalla realtà quotidiana, dalle cose vere e proprie che interessano milioni di persone che si affannano tra precariato, tasse e affitti, ma alcuni fatti di cronaca ci svelano il contrario, ci permettono di collocare la retorica fascista e nazionalista in un contesto preciso, tangibile, lontano dai protagonisti della propaganda politica e vicino, invece, alle azioni concrete generate da quei protagonisti e da quelle idee.
Così accade nella provincia di Alessandria, in Piemonte, quando i braccianti della ditta Angeleri D.F.S. di Guazzora incrociano le braccia e scioperano ad oltranza per chiedere il pagamento del salario che l’imprenditore non versa da mesi. Assistiti dal sindacato di base CUB, i braccianti ottengono un incontro in prefettura e l’impegno dell’imprenditore insolvente a pagare il dovuto.
Ed ecco che, subito dopo, il padrone invita i militanti di una formazione politica di estrema destra a visitare la sua ditta e ne consegue un comunicato nel quale i militanti dichiarano che “le aziende agricole del territorio devono essere tutelate”, perché lo “sciopero non deve ostacolare il lavoro”.
La formazione politica di estrema destra si chiama CasaPound e prende il nome dall’intellettuale statunitense Ezra Weston Loomis Pound che fu convinto sostenitore di Mussolini e del fascismo fino alla fine della II° guerra mondiale, per poi essere processato dagli Stati Uniti per tradimento, giudicato incapace e recluso in un manicomio giudiziario.
In Italia non si è mai svolto un processo ai gerarchi fascisti come avvenne in Germania. Molti di loro si riciclarono nelle istituzioni della nascente Repubblica e qualcuno fondò subito un partito, il Movimento Sociale Italiano (MSI) il cui segretario aveva scritto sulla Rivista della Razza nel 1942 “siamo orgogliosamente fascisti e razzisti”. Si chiamava Giorgio Almirante e oggi viene ricordato più come politico della c.d. prima repubblica piuttosto che come il gerarca che sosteneva la deportazione degli ebrei e degli oppositori del regime fascista.
Certo, ricostituire un partito fascista è vietato in Italia e questo Giorgio Almirante lo sapeva bene così come i militanti di CasaPound, ma in un Paese senza memoria può accadere che molti riducano la storia del fascismo alla puntualità dei treni e che altri, invece, riprendano vecchie pratiche alla luce del sole, nascosti da pseudonimi, per riportare indietro l’orologio del tempo.
“Dire che lo sciopero è un diritto, ma non deve ostacolare il lavoro, equivale a dire che lo sciopero non si deve fare” ci dice Stefano Capelli della CUB Piemonte. Già, lo sciopero nasce per fermare il lavoro, arrestare la produzione, proprio come fecero i contadini e gli operai nei primi decenni del ‘900 per chiedere diritti e riforme che oggi ci appaiono scontate. Ma la sordità e la distanza dei governi liberali fece crescere il malcontento e la risposta dei contadini e degli operai fu lo sciopero ad oltranza e l’occupazione delle fabbriche. Fu allora che i primi squadristi intervennero per attaccare chi organizzava le lotte dei lavoratori e reprimere l’azione delle Camere del Lavoro. Spedizioni punitive contro i singoli sindacalisti, avverso le sedi delle riviste di opposizione, bruciate in roghi della cultura, per intimidire, diffondere paura, eliminare gli avversari. Hitler faceva tesoro di quegli esempi, mentre i liberali e popolari italiani si illudevano di poter ben gestire quel movimento e il loro capo politico, Mussolini, a loro vantaggio.
Ma non si può gestire la violenza. Essa travolse l’Italia e gli italiani in ogni aspetto della loro vita.
È passato molto tempo da allora, ma quella violenza, oggi, la si può riconoscere nelle parole e nelle azioni nelle quali si manifesta. Dalla mano che spara a caso su chi ha la pelle nera a Terni, alle offese sui social web ai danni di chi si occupa dei più poveri e degli immigrati, ai comunicati che negano il diritto di sciopero in nome della tutela della produzione, sino alle leggi che impongono gli arresti per gli accattoni e che cancellano il permesso umanitario.
Segnali di una rabbia sociale su cui si sedimenta giorno dopo giorno la cultura della violenza e dell’odio, del rifiuto di chi è diverso, perché povero, nero, o soltanto fuori dal coro. La violenza offerta quale unica risposta ai drammi della ingiustizia e disuguaglianza sociale causati da fenomeni ben più complessi di uno slogan, viene sostenuta e veicolata da personaggi pubblici, da politici e dalla spettacolarizzazione della informazione che ha più attenzione all’audience che al contenuto.
“Dopo mesi e mesi che non prendevamo un soldo, ci siamo licenziati per giusta causa per prendere la disoccupazione” ci racconta uno dei braccianti della Angeleri. Lo sciopero ha sortito i suoi effetti e il padrone ha riconosciuto di dover pagare gli stipendi ai braccianti agricoli.
Questo è il fatto. Il resto, è cronaca di un tempo di crisi sociale ed economica per le masse, a cui la politica della c.d. seconda Repubblica non ha dato risposte e sui cui oggi si affacciano nuovi opportunisti, capaci di cavalcare il rancore di quanti sono smarriti dai cambiamenti, aggrediti dalla povertà e privati della speranza.
“Arriva il cammello!” grida qualcuno, e il suono dei tamburi riecheggia nelle vie di un piccolo paese della Calabria. Il suo capo rosso sbuca improvviso e sbatte i denti prima di ballare circondato dalla gente. Ma che ci fa un cammello in Calabria? Qual è l’origine di questa tradizione? Reportage su un antico rito popolare che, come gli altri presenti in Italia, ci riconduce alla nostra storia e ci consegna la nostra identità collettiva.
Il reportage qui pubblicato contiene alcuni estratti del documentario “Il ballo del Cammello” corredate da interviste realizzate a margine. Il documentario, della durata di 44 minuti, è stato realizzato grazie alla disponibilità degli artigiani che lo hanno ricostruito e dei giovani di Filadelfia che lo animano per le vie del paese. Accompagnato dalle melodie del gruppo musicale calabrese Nd’arranciamu, il documentario segue la ricostruzione del fantoccio, la rievocazione del rito popolare e scava alla ricerca della sue origini. Pubblicato su DVD è disponibile su richiesta scrivendo a: reportage.ac@gmail.com
In Calabria, nel paese di Filadelfia (VV), proprio in questi giorni, fervono i preparativi per la rievocazione di un rito popolare le cui origini si perdono nel tempo. Un grande cammello con due gobbe, un lungo collo e una testa rossa che pare un demonio, si aggira per le vie del paese sbattendo i denti e ballando al ritmo dei tamburi che lo accompagnano. Corre, volteggia, salta, inseguito dai bambini, su e giù per il paese, e la gente si affaccia, lo saluta, ci balla assieme, e lo insegue in una danza collettiva che dura giorni, sino all’uscita del Santo in processione (San Francesco di Paola) alla prima domenica di agosto.
Allora i fuochi d’artificio della notte decreteranno la morte del Cammello. Il suo corpo sarà custodito dalla Confraternita di San Francesco per ritornare a vivere l’anno successivo, quando luglio si appresterà a cedere il passo ad agosto.
L’italia è ricca di riti popolari, di tradizioni pagane che si mescolano a quelle religiose e che nel loro insieme ci rendono la nostra identità, ci dicono chi siamo e da dove veniamo. Il palio di Siena, i ceri di Gubbio, le canderole di Sant’Agata a Catania, la lista è lunga e non basterebbero fogli e fogli, ma tutte queste manifestazioni collettive non sono vive per gli scatti fotografici dei turisti, ma perché rispondono ad un bisogno insito nell’essere umano, un bisogno più forte del profitto o dello stretto tornaconto personale.
È il bisogno di riconoscere le proprie radici, la necessità di non smarrire la propria storia, così come facciamo ricordando nostro padre o nostra madre. È qualcosa che nasce con noi, prima ancora della ruota e della moneta, che ci ha permesso di costruire tutto ciò che vediamo intorno, passo dopo passo, e senza il quale saremmo persi come se ci trovassimo d’improvviso a vagare in un deserto senza alcun punto di riferimento.
Per scoprire le origini del ballo del Cammello, bisogna risalire a molti secoli addietro, quando i saraceni invadevano la Sicilia e la Calabria costringendo le popolazioni della costa a riparare nell’entroterra. La più evidente conseguenza di tali avvenimenti è che oggi, anziché antipasti di mare e linguine allo scoglio, nella terra della Magna Grecia prevale la soppressata, l’olio, le olive, le melanzane sott’olio e il peperoncino, del quale i calabresi sono dei veri estremisti. La Calabria, infatti, per quanto sia circondata dal mare, ha pochissime città di mare. Le aveva ai tempi dei greci e le conservò durante l’impero romano, ma alla sua caduta le coste non furono più sicure. Nacque allora Katantzàrion, l’attuale Catanzaro, una fortezza edificata a trecento metri di altezza per dominare l’intero Golfo di Squillace.
Nacque così il rito del Cammello che originariamente era accompagnato dai Giganti, grandi fantocci umani che danzavano agitando le braccia, e il suono dei tamburi che li annunciava si udì in molte città del sud per ricordare gli invasori, per schernirli, per deriderli, per superare la paura e festeggiare la libertà.
Il tempo passò, trascorsero i secoli e il rito sparì in alcuni luoghi e riapparve in altri. Arrivò così nel paese medioevale di Castelmonardo, importante centro amministrativo e artigianale della Calabria, quando due fratelli proposero, dietro compenso, di “ballare il Cammello”, e riuscirono a concludere un contratto presso un notaio.
Poi vennero i terremoti e uno di essi, nel 1783, distrusse Castelmonardo. Senza Unità di Crisi né Protezione Civile, si ricostruì sul colle vicino e lo si fece con un piano moderno. Una grande piazza centrale nella quale si incrociano le due vie principali. Ai quattro angoli della piazza furono edificate quattro chiese che si affacciano sui quattro quartieri del paese regolati da isolati altrettanto quadrati. Il nuovo paese fu così chiamato Filadelfia.
Il Cammello era sopravvissuto al terremoto e così riapparve nel nuovo paese col sole d’estate. Sbarcò Garibaldi in Calabria più tardi e, tranne qualche scaramuccia, non trovò alcuna resistenza attraversando la regione diretto alla battaglia decisiva in Campania. Il popolo era stanco del potere dei baroni e sognava la terra, la libertà dal padrone.
Ma le cose non andarono come in un film a lieto fine. Con l’unità d’Italia la Calabria perse gran parte della sua struttura economia. Benché a beneficiarne erano solo i ricchi proprietari terrieri e i commercianti, la regione esportava una enorme ricchezza grazie alle sue produzioni tessili, siderurgiche e agricole prima che le strade fossero intitolate a Re Umberto di Savoia. Alcune industrie, come i Ferri di Mongiana, furono smantellate e vendute per fare cassa e altre furono compromesse come i centri tessili della provincia di Catanzaro o le conce per la liquerizia in quella di Cosenza, delle quali ne è sopravvissuta una soltanto delle oltre quaranta dell’epoca. Il Re piemontese lasciò solo una cosa intatta, il latifondo, proprio ciò che il popolo non voleva. Il possesso delle terre coltivabili restava nelle poche mani di sempre e sarebbe stato scalfito solo dalla prima riforma agraria varata nel 1959, cento anni dopo l’unità d’Italia.
Lentamente, la Calabria scivolò insieme a tutto il resto del sud nella famosa “questione meridionale” con tutti i risvolti che oggi conosciamo e iniziò il dramma della emigrazione che ancora oggi persiste. Anche Filadelfia perse le sue ricchezze e si spogliò dei suoi fasti. Molti partirono, alcuni per il nord d’Italia, altri all’estero, in Europa, o più lontano, in Canada e in Argentina.
La grande piazza del paese visse inverni sempre più solitari. Sempre meno giovani animavano i suoi rioni e gli stretti vicoli che li attraversano. Antichi giochi si smarrirono, molte case furono abbandonate e una sera anche il Cammello morì senza più tornare a ballare.
Allora si creò un vuoto. Tutti si sentirono più poveri come se avessero perso un tesoro. Fu allora che accadde qualcosa. Il vecchio scheletro del Cammello era ancora dove era stato lasciato l’ultima volta, in una stanza buia dietro la chiesa, e un giorno qualcuno riaprì la sua finestra e si mise a osservarlo coperto dalla polvere, col mantello raccolto in un cesto e la testa con la mascella rotta accanto. Un altro giorno tornò insieme ad alcuni artigiani che studiarono lo scheletro e presero le misure. Iniziò così la sua ricostruzione, meticolosa, paziente, perché nulla doveva essere diverso. Il Cammello doveva tornare come se non fosse mai sparito. E un giorno di qualche anno fa’, per le vie del paese, si udì nuovamente il ritmo dei tamburi e qualcuno riprese a gridare “Arriva il Cammello!”
Come tanti centri nel sud, anche Filadelfia ritrova i suoi abitanti d’estate. Nativi e oriundi, figli e nipoti, tornano per rivedere la loro casa o quella dei nonni, per mangiare ancora i fileja col sugo di carne e per ballare col Cammello. Già, quello strano animale dal collo lungo e i denti che sbattono come se ti volessero addentare, capace però, di ricordare a tutti la propria infanzia, quando ci si chiedeva con stupore se quello strano coso fosse vero nonostante spuntassero due scarpe da sotto il mantello.
È la forza delle radici, è il richiamo della memoria, è la magia dei riti popolari. Reportage Luglio 2018
Chi sono i Riders? Come lavorano? Sono manager di se stessi o sfruttati da veri manager?
Nel tempo della Gig economy, della economia della rete e dei “lavoretti”, la precarietà assume un nuovo volto e presenta un futuro mercato del lavoro ancora più incerto e inquietante.
Reportage sui fattorini del cibo e sul conflitto che si diffonde nelle più grandi città italiane per comprendere meglio come funzionano gli algoritmi applicati ai lavoratori e come gli stessi lavoratori si organizzano autonomamente.
Il conflitto nel tempo della Gig Economy
C’era un tempo in cui esistevano le lotte dei lavoratori e a vederli nelle strade o davanti alle fabbriche con gli striscioni e le bandiere parevano invincibili, anche se poi non riuscivano a vincere sempre. C’era un tempo in cui esistevano i sindacati che univano i lavoratori, che educavano alla lotta e alla solidarietà, e si respirava dignità e speranza in mezzo a loro come se le cose potessero realmente cambiare. C’era un tempo in cui si scioperava e quando lo si faceva ne parlavano tutti e non certo per il treno che non si era potuto prendere, bensì per le cose che si voleva ottenere. C’era un tempo in cui la gente faceva politica e ne parlava senza vergogna, al bar, per la strada, perfino allo stadio, e ci si accendeva ancor più di un gol di Pulici, e si litigava, si discuteva con passione su come le cose dovessero trasformarsi e i problemi risolversi.
C’era un tempo in cui le parole erano cariche di significato e vi erano persone che sapevano incarnarne il senso come se fossero nate per rappresentarle. Apparivano poco in televisione, ma potevi ascoltarle nelle piazze delle città e dei paesi, ed erano piazze colme di gente.
In quel tempo, quasi nessuno conosceva le parole dell’inno nazionale e quando lo si sentiva si stava tutti zitti e qualcuno intonava al massimo la prima strofa. Il mondo non era migliore e molte delle cose che per noi oggi sono scontate non lo erano affatto, ma si aveva la sensazione di non essere soli, di non essere invisibili agli occhi della società.
Pensavo questo mentre camminavo con passo veloce insieme ad Angelo, Amir e Gian Marco, per raggiungere il Policlinico di Milano dove era ricoverato Francesco, il fattorino di Just Eat che ha subito l’amputazione di un piede a seguito di un incidente sul lavoro.
Vengono chiamati riders e vengono considerati manager di se stessi dalle aziende per cui lavorano, anzi, per cui svolgono dei lavoretti correndo in bicicletta o col motorino. Le aziende, in realtà, sono piattaforme web a cui ci si iscrive e da cui si riceve la distribuzione del lavoro tramite algoritmi che premiano la massima flessibilità e velocità con pochi euro a consegna. Francesco correva per una di esse, portando una scatola colorata sulle spalle col pasto ancora caldo da consegnare prima che la striscia del tempo segnata sul suo cellulare, costantemente collegato alla piattaforma digitale, diventasse rossa e iniziasse a lampeggiare come un allarme antincendio. Presto, o finirai per scontentare il “consumatore” e per perdere punti nella graduatoria che l’algoritmo calcolerà per assegnarti altri “lavoretti”. Nessun contratto di lavoro nazionale per questi fattorini. Non ne hanno bisogno, dicono i dirigenti delle aziende, perché oggi è il tempo della libertà, della autonomia, della flessibilità, non più richiesta dal datore di lavoro, ma dal lavoratore stesso, felice di pedalare come libero imprenditore.
Chissà cosa avrebbe detto mio padre? Anche lui si occupava della “polis”, dei problemi della comunità, perché era convinto che lo riguardassero sempre, anche quando non ne era direttamente coinvolto.
Anche Angelo, Amir e Gian Marco si sentono coinvolti, proprio come mio padre, e camminano veloci sotto il sole per portare la loro solidarietà a Francesco e dirgli che faranno un presidio davanti al Comune per chiedere di essere riconosciuti lavoratori e non imprenditori, per avere un contratto e una assicurazione generale, ma con loro non ci sono i grandi sindacati, né partiti politici che si battono per il diritto al lavoro.
Sono soli, auto-organizzati insieme ad altri fattorini e lavoratori precari solidali, capaci di trovarsi la sera per parlare dei loro problemi, per condividerli, per aiutarsi, per organizzarsi e avanzare richieste. Hanno capito che soli sono sconfitti e non potranno fare altro che adeguarsi. Oggi due euro a consegna, domani mezzo chilo di patate e un tozzo di pane.
“Deliverance Milano” è il nome del collettivo che si sono dati e da oltre un anno lottano insieme per chiedere di essere riconosciuti lavoratori subordinati quali sono di fatto, anche se non legalmente. Lavoratori subordinati alla organizzazione del lavoro prodotta dalla azienda e non certo dal loro cellulare e dalla bicicletta.
Quando entriamo nella stanza, Francesco ci sorride nonostante il dolore e la madre accanto a lui ci accoglie col medesimo calore. Sulla maglietta azzurra che indossa sta il simbolo del Napoli che per poco ha perso lo scudetto a vantaggio della Juventus.
“Purtroppo devo dirti che sono juventino” confessa Angelo. “Anche mia madre lo è” risponde Francesco sorridendo. Sorridiamo anche noi.
Squilla il telefono. Francesco risponde. Lo salutiamo, gli stringo la mano e esco insieme agli altri. Riprendiamo il nostro cammino restando un po’ in silenzio, ognuno nei propri pensieri.
“E’ incredibile come sia Francesco a trasmetterti forza” dice ad un tratto Angelo.
Passiamo proprio accanto al Comune di Milano dove si terrà il presidio fra qualche ora. Adesso, però, c’è da andare a prendere gli striscioni e stampare i volantini. “Reclama i tuoi diritti!” dicono.
Oggi la società guarda con fastidio chi sciopera o occupa le strade per manifestare. Detesta qualsiasi cosa abbia sentore di istituzione, perfino un collettivo autorganizzato. Occuparsi della “Polis”, fare politica, è roba da illusi o peggio, da truffaldini, da arrivisti, insomma, affari da poltrona. Meglio starsene a casa e abbonarsi ad una pay tv.
Ma “l’isola che non c’è”, quella in cui “non ci son santi né eroi”, quella in cui “non c’è mai la guerra”, non esiste. Lo cantava Edoardo Bennato, e questi ragazzi, questi giovani nati senza più Contratti a tempo Indeterminato né art.18, lo hanno capito senza neanche ascoltare la canzone.
Nel tempo in cui abbiamo smesso di partecipare e abbiamo solo delegato, nel tempo in cui ci limitiamo a mettere il “like” su facebook, mentre perdiamo la pensione, loro hanno deciso di agire, questi fattorini e lavoratori precari hanno scelto di praticare quella cosa che è garanzia della salute di una democrazia e che le consente di trasformarsi: il conflitto.
Troviamo diverse persone al nostro ritorno, sotto Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. Ci sono biciclette e fattorini, giornalisti, solidali e ci sono le maestre precarie che rischiano di perdere il posto per una sentenza che le esclude dall’insegnamento dopo oltre dieci anni di precariato nelle scuole pubbliche.
Mi avvicino a loro, mentre Angelo e Amir srotolano gli striscioni, e faccio l’ultima domanda.
“Cosa vi spinge ad essere solidali, ad essere qui anche se non siete fattorini?”
“Utilizzerò una parolaccia…. Solidarietà di classe. Riconosciamo nell’altro sfruttato la nostra condizione”
Di tempo ne è passato e l’Italia è cambiata, ma queste parole, ne sono certo, sarebbero piaciute a mio padre.