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Il reportage qui pubblicato contiene alcuni estratti del documentario “Il ballo del Cammello” corredate da interviste realizzate a margine. Il documentario, della durata di 44 minuti, è stato realizzato grazie alla disponibilità degli artigiani che lo hanno ricostruito e dei giovani di Filadelfia che lo animano per le vie del paese. Accompagnato dalle melodie del gruppo musicale calabrese Nd’arranciamu, il documentario segue la ricostruzione del fantoccio, la rievocazione del rito popolare e scava alla ricerca della sue origini. Pubblicato su DVD è disponibile su richiesta scrivendo a: reportage.ac@gmail.com
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U Ballu du Camiedu
In Calabria, nel paese di Filadelfia (VV), proprio in questi giorni, fervono i preparativi per la rievocazione di un rito popolare le cui origini si perdono nel tempo. Un grande cammello con due gobbe, un lungo collo e una testa rossa che pare un demonio, si aggira per le vie del paese sbattendo i denti e ballando al ritmo dei tamburi che lo accompagnano. Corre, volteggia, salta, inseguito dai bambini, su e giù per il paese, e la gente si affaccia, lo saluta, ci balla assieme, e lo insegue in una danza collettiva che dura giorni, sino all’uscita del Santo in processione (San Francesco di Paola) alla prima domenica di agosto.
Allora i fuochi d’artificio della notte decreteranno la morte del Cammello. Il suo corpo sarà custodito dalla Confraternita di San Francesco per ritornare a vivere l’anno successivo, quando luglio si appresterà a cedere il passo ad agosto.
L’italia è ricca di riti popolari, di tradizioni pagane che si mescolano a quelle religiose e che nel loro insieme ci rendono la nostra identità, ci dicono chi siamo e da dove veniamo. Il palio di Siena, i ceri di Gubbio, le canderole di Sant’Agata a Catania, la lista è lunga e non basterebbero fogli e fogli, ma tutte queste manifestazioni collettive non sono vive per gli scatti fotografici dei turisti, ma perché rispondono ad un bisogno insito nell’essere umano, un bisogno più forte del profitto o dello stretto tornaconto personale.
È il bisogno di riconoscere le proprie radici, la necessità di non smarrire la propria storia, così come facciamo ricordando nostro padre o nostra madre. È qualcosa che nasce con noi, prima ancora della ruota e della moneta, che ci ha permesso di costruire tutto ciò che vediamo intorno, passo dopo passo, e senza il quale saremmo persi come se ci trovassimo d’improvviso a vagare in un deserto senza alcun punto di riferimento.
Per scoprire le origini del ballo del Cammello, bisogna risalire a molti secoli addietro, quando i saraceni invadevano la Sicilia e la Calabria costringendo le popolazioni della costa a riparare nell’entroterra. La più evidente conseguenza di tali avvenimenti è che oggi, anziché antipasti di mare e linguine allo scoglio, nella terra della Magna Grecia prevale la soppressata, l’olio, le olive, le melanzane sott’olio e il peperoncino, del quale i calabresi sono dei veri estremisti. La Calabria, infatti, per quanto sia circondata dal mare, ha pochissime città di mare. Le aveva ai tempi dei greci e le conservò durante l’impero romano, ma alla sua caduta le coste non furono più sicure. Nacque allora Katantzàrion, l’attuale Catanzaro, una fortezza edificata a trecento metri di altezza per dominare l’intero Golfo di Squillace.
Nacque così il rito del Cammello che originariamente era accompagnato dai Giganti, grandi fantocci umani che danzavano agitando le braccia, e il suono dei tamburi che li annunciava si udì in molte città del sud per ricordare gli invasori, per schernirli, per deriderli, per superare la paura e festeggiare la libertà.
Il tempo passò, trascorsero i secoli e il rito sparì in alcuni luoghi e riapparve in altri. Arrivò così nel paese medioevale di Castelmonardo, importante centro amministrativo e artigianale della Calabria, quando due fratelli proposero, dietro compenso, di “ballare il Cammello”, e riuscirono a concludere un contratto presso un notaio.
Poi vennero i terremoti e uno di essi, nel 1783, distrusse Castelmonardo. Senza Unità di Crisi né Protezione Civile, si ricostruì sul colle vicino e lo si fece con un piano moderno. Una grande piazza centrale nella quale si incrociano le due vie principali. Ai quattro angoli della piazza furono edificate quattro chiese che si affacciano sui quattro quartieri del paese regolati da isolati altrettanto quadrati. Il nuovo paese fu così chiamato Filadelfia.
Il Cammello era sopravvissuto al terremoto e così riapparve nel nuovo paese col sole d’estate. Sbarcò Garibaldi in Calabria più tardi e, tranne qualche scaramuccia, non trovò alcuna resistenza attraversando la regione diretto alla battaglia decisiva in Campania. Il popolo era stanco del potere dei baroni e sognava la terra, la libertà dal padrone.
Ma le cose non andarono come in un film a lieto fine. Con l’unità d’Italia la Calabria perse gran parte della sua struttura economia. Benché a beneficiarne erano solo i ricchi proprietari terrieri e i commercianti, la regione esportava una enorme ricchezza grazie alle sue produzioni tessili, siderurgiche e agricole prima che le strade fossero intitolate a Re Umberto di Savoia. Alcune industrie, come i Ferri di Mongiana, furono smantellate e vendute per fare cassa e altre furono compromesse come i centri tessili della provincia di Catanzaro o le conce per la liquerizia in quella di Cosenza, delle quali ne è sopravvissuta una soltanto delle oltre quaranta dell’epoca. Il Re piemontese lasciò solo una cosa intatta, il latifondo, proprio ciò che il popolo non voleva. Il possesso delle terre coltivabili restava nelle poche mani di sempre e sarebbe stato scalfito solo dalla prima riforma agraria varata nel 1959, cento anni dopo l’unità d’Italia.
Lentamente, la Calabria scivolò insieme a tutto il resto del sud nella famosa “questione meridionale” con tutti i risvolti che oggi conosciamo e iniziò il dramma della emigrazione che ancora oggi persiste. Anche Filadelfia perse le sue ricchezze e si spogliò dei suoi fasti. Molti partirono, alcuni per il nord d’Italia, altri all’estero, in Europa, o più lontano, in Canada e in Argentina.
La grande piazza del paese visse inverni sempre più solitari. Sempre meno giovani animavano i suoi rioni e gli stretti vicoli che li attraversano. Antichi giochi si smarrirono, molte case furono abbandonate e una sera anche il Cammello morì senza più tornare a ballare.
Allora si creò un vuoto. Tutti si sentirono più poveri come se avessero perso un tesoro. Fu allora che accadde qualcosa. Il vecchio scheletro del Cammello era ancora dove era stato lasciato l’ultima volta, in una stanza buia dietro la chiesa, e un giorno qualcuno riaprì la sua finestra e si mise a osservarlo coperto dalla polvere, col mantello raccolto in un cesto e la testa con la mascella rotta accanto. Un altro giorno tornò insieme ad alcuni artigiani che studiarono lo scheletro e presero le misure. Iniziò così la sua ricostruzione, meticolosa, paziente, perché nulla doveva essere diverso. Il Cammello doveva tornare come se non fosse mai sparito. E un giorno di qualche anno fa’, per le vie del paese, si udì nuovamente il ritmo dei tamburi e qualcuno riprese a gridare “Arriva il Cammello!”
Come tanti centri nel sud, anche Filadelfia ritrova i suoi abitanti d’estate. Nativi e oriundi, figli e nipoti, tornano per rivedere la loro casa o quella dei nonni, per mangiare ancora i fileja col sugo di carne e per ballare col Cammello. Già, quello strano animale dal collo lungo e i denti che sbattono come se ti volessero addentare, capace però, di ricordare a tutti la propria infanzia, quando ci si chiedeva con stupore se quello strano coso fosse vero nonostante spuntassero due scarpe da sotto il mantello.
È la forza delle radici, è il richiamo della memoria, è la magia dei riti popolari. Reportage Luglio 2018