ROGHUDI (RC) – Vengono chiamati “paesi fantasma” e ognuno di essi ha la sua storia. Le strade vuote, le case diroccate, i resti di ciò che fu vita un tempo risuonano nel silenzio, interrotto dal calpestio dei cocci allorquando violiamo il loro lento appassire. Si prova quasi pudore nel farlo, come se entrassimo senza permesso nella vita degli altri, senza bussare alla porta. Ma la porta non c’è più e la cornice di legno è ormai consumata dalla pioggia e dal vento. Ciò che resta è la nostra curiosità, il bisogno di scoprire e di rappresentare a nostra volta, di musicare magari, oppure scrivere o fotografare, poiché, che se ne sia consapevoli o meno, nasciamo tutti artigiani, capaci di limare le pietre così come di immaginare ciò che non si vede.
Penso questo, mentre mi aggiro fra i ruderi di Roghudi insieme al gruppo fotografico Fata Morgana. Cerco di catturare delle immagini mosso dalla stessa curiosità dei miei amici, giunti sino a lì per amore di uno scatto. Il panorama è superbo e la luce intensa. Il paese, arrampicato su un rupe di arenaria ai margini della fiumara Amendolea, richiama alla mente i disegni di Edward Lear eseguiti durante il suo viaggio in Calabria nel 1847, o le pagine scritte da Corrado Alvaro sulla vita in Aspromonte, ma ciò che ognuno di noi vede dall’occhiello della fotocamera è diverso, unico. Corrisponde al proprio punto di vista, a ciò che gli occhi vedono col cuore, con l’emozione improvvisa che cattura un istante.
Un vecchio pergolato è sopravvissuto in un angolo del paese e alcuni grappoli d’uva pendono dal tetto di rami e vecchie travi di legno. Il pendio è ripido oltre il muretto di pietra e si sente il suono dell’acqua scorrere in fondo, fra le rocce e gli arbusti che ricoprono le alture intorno. La vita da queste parti non è stata certo facile, ma necessariamente dura per difendersi dalle incursioni sulle coste dei saraceni prima e per sopportare, poi, la povertà indotta dal grande latifondo che dominò il sud sino al 1959. Come sappiamo, l’unità d’Italia non liberò il popolo del sud, ma poggiò proprio sulla conservazione dello status quo dei vecchi baroni e dei loro latifondi.

Ma Roghudi non si trasformò in un paese fantasma per questo. La sua storia cambiò d’improvviso, più velocemente di quanto l’emigrazione all’estero o nel nord d’Italia potesse fare. Per timore di cedimenti e crolli, il paese fu evacuato intorno al 1970. Le case furono chiuse e col tempo abbandonate. I ganci di ferro alle sue mura, a cui si narrava venissero legati i bambini perché non cadessero nel dirupo sottostante, si arrugginirono e la testa del Drako in cima alla collina smise di difendere il suo tesoro dalle minacce degli avidi malvagi. Roghudi si spense nel silenzio e le sue leggende si persero nel vento che continua a soffiare sulla fiumara.
Ora ci sono i nostri passi sui suoi sentieri. Un sole caldo ci accompagna insieme al canto dei grilli su per la Rocca del Drako. I suoi occhi ci guardano indifferenti. Il suo tempo non è il nostro e la sua magia durerà per molto ancora. Salgo sul crinale per raggiungere Francesco e Domenico. Da lì si vede lontano e la testa del Drako pare un gigante fra giganti. Ora lo vedo anch’io dall’occhio della telecamera e non resisto. Schiaccio rec, e anch’io tento di catturare quell’istante.

Quell’istante, ora, è già passato, è già immagine, è già quadro, è fotogramma di un dettaglio, somma di contrasti, di ombre, luci e colori che rivelano qualcosa, che raccontano un viaggio e un tempo, quello delle emozioni che tentiamo di catturare come fossero fiori che non appassiscono mai.
Alfredo Comito
Ringraziamenti – Si ringrazia il gruppo fotografico FATA MORGANA D.L.F. di Reggio Calabria. In particolare, Federico Santo, Labate Domenico, Laganà Francesco, Laganà Laura, Orlando Antonella, Sgrò Silvana, per la disponibilità, e generosità con le quali hanno contribuito alla realizzazione del reportage.