Vivere in Guerra: Il Racconto di Yara profuga dalla Striscia di Gaza

Com’è vivere nell’incombenza costante di una guerra? Cosa significa crescere in una striscia di terra dalla quale non puoi uscire né rientrare senza il permesso di una autorità straniera? Come si riesce a non cedere alla paura, alla rabbia, alla rassegnazione, e come si possono nutrire i sogni, progettare il futuro, trovare la serenità di una vita dedicata alla vita? Il racconto di Yara, profuga palestinese, scampata al massacro della sua gente nella striscia di Gaza, è un tuffo nel cuore di una vita, di una esistenza, di un popolo privato della propria terra che continua a pagare il prezzo di una tragedia che affonda le sue radici nella seconda guerra mondiale e nelle scelte delle democrazie europee.

Yara

Occhi scuri e profondi, Yara ha un sorriso pieno di speranza. Il bollettino di guerra in Palestina è il bollettino di un massacro e so bene di non avere alcuna idea di cosa sia una guerra e tantomeno un massacro quando le stringo la mano. Neanche leggendo i numeri dei bambini morti sinora, delle donne e degli uomini sepolti sotto le macerie dei palazzi, delle atrocità quotidiane che più di due milioni di persone continuano a patire da oltre un anno, mi potrò rendere conto di cosa sia l’orrore che si sta perpetrando in Palestina. Sono le emozioni la nostra memoria più profonda, la nostra viva consapevolezza. I numeri descrivono, quantificano, ma non parlano, non hanno lacrime, non sono corpi.
Yara era da poco giunta in Italia per un progetto di studio quando, il 7 ottobre 2023, Hamas sferrò un feroce attacco contro Israele scatenando una reazione ancora più feroce da parte del governo di Netanyahu. Yara aveva atteso più di un anno il permesso per poter uscire dalla striscia di Gaza e partire per l’Italia e ora non sa più quando, e se potrà ritornare nella sua terra. La sua casa è stata distrutta, l’intera striscia è un cumulo di maceria, e fra i tanti morti ci sono i suoi parenti, i suoi amici, i suoi vicini di casa, i suoi compagni d’università.

la strage di Gaza


Niente di ciò che ha conosciuto come Gaza è rimasto in piedi. L’esercito israeliano utilizza armi, per lo più fornite dalle democrazie occidentali, capaci di penetrare il suolo e creare crateri. Palazzi, ospedali, asili, scuole, moschee, così sono crollate su se stesse seppellendo i loro abitanti, uomini, donne e bambini. Migliaia di bambini. Oltre 15000 sono i minori uccisi secondo il ministero della sanità palestinese, dei quali la quasi metà sotto i cinque anni, e oltre 33000 i feriti. Una strage che non ha nulla della guerra, nulla di uno scontro armato tra due eserciti, compiuta contro un popolo ritenuto colpevole di non aver capovolto il proprio governo, di non aver cacciato Hamas. Come dire che in Italia si invia l’esercito in Calabria e si rade al suolo Reggio e tutta la costa sino a Scilla facendo strage dei suoi cittadini perché non hanno cacciato i mafiosi.

Difficile raccontare tutto questo, parlare di una esistenza che ha dovuto sempre fare i conti con la guerra, spiegare la condizione di rifugiata in una striscia di terra dalla quale non può uscire senza permesso, ma Yara ha accettato di farlo, ha trovato il coraggio di parlare di sé e della sua gente, della telefonata con suo padre all’indomani dei primi bombardamenti, del suo desiderio di fare il medico per essere utile al suo popolo. Nessun odio nelle sue parole, neanche quando parla della nonna e della Nakba, dell’abbandono forzato della propria casa e della propria terra, ma solo emozioni che parlano al cuore e dalle quali traspare la forza di un popolo che non può tacere il proprio diritto di esistere.

Alfredo Comito

COVID-19 STORIE DI SOLIDARIETA’

Confinamento, resilienza, quarantena, autocertificazione, R con zero, mascherine, FFP2, eroi… Cosa ci lascia l’esperienza della pandemia? Siamo un po’ cambiati o stiamo tornando come prima? E prima com’era? Reportage su una storia di solidarietà nata, come tante altre, dalla volontà di aiutare il prossimo, di non restare indifferenti, di non aspettare inermi la fine di una crisi sanitaria e sociale che fa già parte della storia dell’umanità.

Reportage – durata 12 minuti

Segrate (MI) – Siamo nel pieno della pandemia, coi bollettini medici che misurano la crescita dei contagi e con l’esercito inviato nelle aree più colpite per trasportare le bare dei morti e per mettere in piedi ospedali da campo. La zona rossa è tutta Italia. Le strade sono deserti di asfalto e il silenzio domina lo spazio oltre le nostre finestre. Ogni tanto si ode la sirena dell’ambulanza che risuona come un allarme aereo prima del bombardamento. Ma le bombe che cadono non fanno rumore, né distruggono le case. In silenzio colpiscono le persone a centinaia, a migliaia, lasciandole sui letti degli ospedali o delle case di riposo. Allo stesso tempo, senza alcun fragore, svuotano le dispense di molti altri, rompono i salvadanai, disperdono la speranza, incatenano alla miseria, al bisogno di aiuto. La Lombardia è la regione più colpita e Milanononsiferma si trasforma subito Milano S.O.S.

CSA Baraonda – Segrate (MI)


Così, mentre gli infermieri, i medici e tutti i lavoratori ritenuti indispensabili sfidano il contagio, nelle periferie della città e della metropoli nascono le Brigate di solidarietà che si organizzano per raccogliere e distribuire beni d’ogni genere a coloro che la pandemia ha reso più poveri di prima, senza lavoro né cassa integrazione. Il “Pane quotidiano”, storico centro di aiuti milanese per i più indigenti, è ormai chiuso e non riesce più a rispondere ai bisogni di tutti i suoi utenti. Serve qualcuno che distribuisca porta a porta, che raccolga le domande e organizzi il servizio. Serve un centralino e una banca dati, serve collegare chi dona a chi riceve, serve entusiasmo e buona volontà, generosità e coraggio.
A Segrate, nei pressi dell’aeroporto di Linate ormai silenzioso quanto il viale che lo collega al ventre di Milano, un gruppo di ragazzi del Centro Sociale Autogestito Baraonda, si ritrovano con il medesimo desiderio. Fare qualcosa, aiutare chi ha più bisogno. Di Segrate era anche il giovane Arcide Cristei che, poco più che diciottenne, rischiava la propria vita per portare i viveri ai partigiani. Nessun fucile per lui. Le sue armi erano la velocità e il coraggio, ciò che i ragazzi hanno quando occorre agire per una causa, per un ideale, per un sogno che si vuole realizzare. Arcide cadde in un agguato fascista, ma il suo coraggio ritrova vita nei cuori dei ragazzi del CSA Baraonda.

Brigata Arcide Cristei


Brigata Arcide Cristei, questo sarà il loro nome. Nessun fucile neanche per loro, ma solo gambe e coraggio. “La normalità era il problema è lo slogan perfetto” dice Johanna alla fine della nostra chiaccherata. “Spero di migliorare quella che prima era normalità, perché tutte le problematiche che ci sono adesso non sono solo ed esclusivamente a causa del virus” aggiunge. “Spero vivamente che non si torni alla normalità precedente, ma a una nuova normalità” conclude.
Di sicuro le cose sono già cambiate, e ancora più cambieranno nei prossimi mesi. Se poi sarà in meglio o in peggio, ancora non lo sappiamo. Ci vorrà tempo per vedere, ma parlando coi militanti della Brigata ho capito una cosa. Date la possibilità ai giovani di fare qualcosa e il mondo cambierà realmente, perché appartiene a loro l’energia del futuro. E di questo, ne son certo, ne è sicuro anche Arcide Cristei.

Alfredo Comito

COVID-19 FASE 2 Gli eroi si incazzano

Cronaca di una giornata di denuncia e di rabbia che ha rotto il silenzio degli invisibili, dei lavoratori che sino a ieri erano indispensabili e che oggi sono già tornati ai margini della società.

Copertina del reportage di Zerocalcare

Milano 27 maggio 2020 – Sotto il grattacielo sede della Regione Lombardia, la più colpita dalla pandemia, si sono radunati sindacati di base, organizzazioni politiche, associazioni milanesi e centinaia di lavoratori.
Oltre 700 tra operatori dei supermercati, degli ospedali, della logistica, della scuola, del turismo, delle RSA, che hanno protestato per le difficili condizioni in cui si trovano. Dagli invisibili del turismo, con contratti spesso legati agli appalti di aziende e cooperative, che dalla metà di agosto rischiano di perdere il lavoro (a meno che il Governo non proroghi il blocco dei licenziamenti), sino agli infermieri del San Raffaele che non navigano in acque migliori.
Il turismo non esiste più nel capoluogo della Regione simbolo del dramma Covid-19, quella su cui gravitano le accuse più forti e le polemiche più accese. Non ci sono più fiere, flotte di agenti commerciali e clienti che affollano le vie degli affari e gli hotel. Non ci sono più eventi, vip veri o presunti che fanno il pieno nei locali, non ci sono più selfie e bus notturni affollati.
Non c’è più l’emergenza, non c’è più bisogno dei 50 posti letto ricavati nella Fiera di Milano al costo 21 milioni di euro, non c’è più necessità di medici meridionali, cubani, appena laureati, non c’è più l’urgenza di assumere.

Infermieri del San Raffaele – Milano


La rabbia dei lavoratori la leggi sui volti, così come la speranza di far sentire la loro voce, quella che in questi lunghissimi mesi di confinamento non abbiamo mai udito così forte, così presente da superare per qualche minuto quella dei protagonisti che appaiono di continuo sui giornali e nei mass media, che ci spiegano come va il mondo, come utilizzare i fondi dello Stato, quali aiuti europei scegliere e come far ripartire il Paese.
In queste lunghe settimane, essi sono divenuti personaggi, primi attori di un racconto quotidiano che ha reso alcuni credibili e altri inaffidabili, che ha dato luce a chi era ai margini e ombra a chi stava al centro dell’attenzione, e ognuno si è ritagliato una fetta, chi prima chi dopo, ma chi è rimasto fuori, senza volto e senza palcoscenico, sono altri, sono quelli che hanno continuato a lavorare per qualche euro a consegna come i raider o quelli che sono rimasti senza lavoro e senza cassa integrazione. Sono le migliaia di false partite iva che vestono il camice bianco negli ospedali, come gli infermieri e gli operatori sanitari che non sono mai stati assunti direttamente, ma che lavorano per cooperative che di cooperativo hanno ben poco. Sono gli immigrati, additati prima come responsabili del disastro di un Paese disastrato da sè, e spariti poi dall’orizzonte della paura durante la pandemia, quando continuavano a lavorare nelle campagne o nei grandi magazzini della logistica per farci arrivare il cibo ben confezionato sugli scaffali dei supermercati.
Sotto il palazzo della Regione, i lavoratori classe “economy” della società, quelli che non si consideravano indispensabili prima del Covid-19, hanno alzato la voce e si sono fatti sentire. In attesa di un incontro con qualche rappresentante della Regione (che non c’è stato), la gran parte dei lavoratori si è poi spostato sulla strada e ha invocato un corteo.
Dopo quale momento di tensione con le forze dell’ordine, i lavoratori sono riusciti a evadere il cordone di uomini e mezzi della polizia e hanno percorso un breve itinerario intorno al grattacielo della Regione. Oltre il tavolo delle decisioni, oltre i battibecchi in Parlamento, al di là dei protagonisti dei mass media, la Fase 2 è anche quella delle piazze, della rabbia che covava in silenzio, degli eroi che ora si incazzano.

Alfredo Comito

TORNEREMO A CANTARE Bella Ciao

25 APRILE 2020 – Nonostante i numerosi tentativi di riscrivere la Storia, di mutarne il senso trasformandola in Festa della Libertà anziché della Liberazione, nonostante il Coronavirus e il confinamento, il 25 Aprile resta un giorno importante e vivo nella memoria popolare. Il giorno in cui si ricorda il sacrificio dei Partigiani che, lottando per la Libertà di tutti, hanno ridato dignità ad un Paese sconfitto e posto le basi della Democrazia con la Costituzione antifascista che assegna ai lavoratori la Sovranità.  Non siamo ancora giunti ad essa, ma la storia ha insegnato che nessuna conquista è stata facile e immediata. Torneremo a cantare Bella Ciao e riprenderemo il cammino che ci hanno indicato i Partigiani.

GRAFFITI – Storie di Strada

Cemento e mura, vagoni e cavalcavia, sono tele per i graffiti. Lettere, scritte, firme, disegni, le impronte dei graffitari sono libera espressione o tracce dell’esistenza? Cosa li spinge a lasciare il segno? Arte o identità? Reportage sui graffiti, segni dalle radici lontane, detestati da alcuni e amati da altri, per comprendere qualcosa in più delle loro tracce.

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Appaiono d’improvviso. La sera prima non c’era nulla e ora vedo un disegno sul muro. A guardar bene è un sequela di lettere colorate, fiammeggianti, toni decisi e armoniosi. Una firma, una grande firma sotto il viadotto ferroviario. Sono graffiti, tracce sulla strada, segni di una presenza.

Qualcuno li detesta e ufficialmente sono vietati, ma io ne sono stato sempre attratto e una sera, passando sotto il viadotto ferroviario, ho visto qualcuno che stava abbozzando un graffito e mi sono fermato.

Dopo aver tracciato qualche linea si è arrestato a pensare. Un passo indietro per osservare l’insieme ed è ripartito con la bomboletta in mano. Ogni traccia, ogni striscia di colore aveva un suono, il sibilo del gas che fuoriusciva dalla bomboletta. Breve, intenso, lungo, parallelo ad ogni pennellata.

Reportage GRAFFITI (2).Movie_Istantanea

Il nudo cemento sotto il viadotto è stato giudicato “libero” dal Comune di Milano e molti graffitari sono già passati per riempire ogni suo centimetro disponibile, ma non sempre è così. Il graffito, il segno, la traccia, ha radici lontane e ha sempre espresso il bisogno di affermare la propria presenza, di marcare la propria identità e il territorio in cui si vive, spinti da esigenze diverse di tempo in tempo, ma sempre connesse alle condizioni sociali, al senso di inclusione ed emarginazione, alla necessità innata dell’essere umano di affermare il dogma “io sono, quindi esisto”.

Nel tempo della realtà digitale che ha modificato la percezione del tempo e dello spazio rendendoci l’illusione di un eterno presente nel quale siamo tutti connessi, i graffiti sembrerebbero relegati a pratiche del passato, quando la realtà era unicamente fisica, concreta come un segno sul muro, ma la loro presenza e rinascita, ci dimostra il contrario e ci induce a riflettere sulla c.d. “società liquida”, termine coniato da Zygmunt Bauman per indicare una società, quella moderna, nella quale ciò che conta è solo il consumismo e l’apparire a tutti i costi, sospinti da un individualismo sfrenato.

In un mondo che ha perso le sue certezza, che non ha più comunità né idee, il liquido presente genera stagnazione del pensiero, senso di emarginazione, di esclusione dal gruppo, di sconfitta nella globale competizione individuale.

I graffiti, che si possano giudicare legali o illegali, forme di arte o pura espressione, contengono tutto questo e il loro apparire mi ricorda che gli esseri umani restano animali sociali e, pertanto, manifestano malessere a vivere senza radici, senza spiritualità, senza comunità, senza identità, senza il tempo e lo spazio.

Nonostante siamo indotti a credere che tutto questo non serva più, che grazie al nostro smartphone possiamo accedere a tutto e adesso, senza intermediari, senza filtri, senza competenze, senza fatica, la realtà è diversa e il vero rischio della iper-connessione sembra essere piuttosto quello di perdere la connessione con la dimensione reale, quella in cui le cose si costruiscono, segno dopo segno, come fa il graffitaro davanti a me.

Si chiama Antoine e viene dalla Francia, vicino Parigi. Forse perché straniero, ha meno diffidenza nel parlare e nel lasciarsi intervistare. Del resto, non tutti i muri della città sono dichiarati “liberi” e lo stato giuridico d’illegalità nel quale spesso si trova chi produce graffiti altrove, rende molto prudenti i graffitari.

Antoine mi racconta il suo inizio e mi parla dei suoi progetti, mentre i treni scorrono sopra le nostre teste. Vuole divertirsi e comunicare qualcosa alla gente che vedrà la sua opera. Qualcosa che riguarda il percorso che ognuno di noi fa nella vita, tra alti e bassi, speranze e delusioni. Viene da Malta dove ha realizzato un’opera su un muro e dove ha conosciuto altri writers. Fa freddo ormai, ed è ora per Antoine di indossare i guanti.

“L’alluminio delle bombolette è freddo e il gas che esce lo è ancora di più” mi dice sorridendo.

Ha molto entusiasmo Antoine e la sua passione mi permettere di sentire cosa dice, di voler capire di più.

“Domani c’è l’ultimo giorno del Graffiti BlockParty a Milano” aggiunge.

Qualcuno dice che niente accade per caso, e in certe occasioni viene proprio da crederci. Traverso la città con Antoine per raggiungere il Ponte della Ghisolfa. Sotto gli echi del traffico perenne, una squadra di graffitari si ritrova per completare le opere disegnate sulle mura di un altro angolo di Milano dichiarato “libero”.

In barba alla società liquida, i graffitari che incontriamo sono comunità. Un caffè per riscaldarsi, una stretta di mano per conoscersi, e le mura prendono colore. Alcuni di loro rispondono alle mie domande, ma non desiderano apparire. Vogliono solo lasciare la loro traccia sullo spazio di una parete sino al tempo in cui una altra traccia la coprirà.