RIDERS – Generazione Low Cost

Chi sono i Riders? Come lavorano? Sono manager di se stessi o sfruttati da veri manager?
Nel tempo della Gig economy, della economia della rete e dei “lavoretti”, la precarietà assume un nuovo volto e presenta un futuro mercato del lavoro ancora più incerto e inquietante.
Reportage sui fattorini del cibo e sul conflitto che si diffonde nelle più grandi città italiane per comprendere meglio come funzionano gli algoritmi applicati ai lavoratori e come gli stessi lavoratori si organizzano autonomamente.


Il conflitto nel tempo della Gig Economy

C’era un tempo in cui esistevano le lotte dei lavoratori e a vederli nelle strade o davanti alle fabbriche con gli striscioni e le bandiere parevano invincibili, anche se poi non riuscivano a vincere sempre. C’era un tempo in cui esistevano i sindacati che univano i lavoratori, che educavano alla lotta e alla solidarietà, e si respirava dignità e speranza in mezzo a loro come se le cose potessero realmente cambiare. C’era un tempo in cui si scioperava e quando lo si faceva ne parlavano tutti e non certo per il treno che non si era potuto prendere, bensì per le cose che si voleva ottenere. C’era un tempo in cui la gente faceva politica e ne parlava senza vergogna, al bar, per la strada, perfino allo stadio, e ci si accendeva ancor più di un gol di Pulici, e si litigava, si discuteva con passione su come le cose dovessero trasformarsi e i problemi risolversi.

C’era un tempo in cui le parole erano cariche di significato e vi erano persone che sapevano incarnarne il senso come se fossero nate per rappresentarle. Apparivano poco in televisione, ma potevi ascoltarle nelle piazze delle città e dei paesi, ed erano piazze colme di gente.

In quel tempo, quasi nessuno conosceva le parole dell’inno nazionale e quando lo si sentiva si stava tutti zitti e qualcuno intonava al massimo la prima strofa. Il mondo non era migliore e molte delle cose che per noi oggi sono scontate non lo erano affatto, ma si aveva la sensazione di non essere soli, di non essere invisibili agli occhi della società.

Pensavo questo mentre camminavo con passo veloce insieme ad Angelo, Amir e Gian Marco, per raggiungere il Policlinico di Milano dove era ricoverato Francesco, il fattorino di Just Eat che ha subito l’amputazione di un piede a seguito di un incidente sul lavoro.

Vengono chiamati riders e vengono considerati manager di se stessi dalle aziende per cui lavorano, anzi, per cui svolgono dei lavoretti correndo in bicicletta o col motorino. Le aziende, in realtà, sono piattaforme web a cui ci si iscrive e da cui si riceve la distribuzione del lavoro tramite algoritmi che premiano la massima flessibilità e velocità con pochi euro a consegna. Francesco correva per una di esse, portando una scatola colorata sulle spalle col pasto ancora caldo da consegnare prima che la striscia del tempo segnata sul suo cellulare, costantemente collegato alla piattaforma digitale, diventasse rossa e iniziasse a lampeggiare come un allarme antincendio. Presto, o finirai per scontentare il “consumatore” e per perdere punti nella graduatoria che l’algoritmo calcolerà per assegnarti altri “lavoretti”. Nessun contratto di lavoro nazionale per questi fattorini. Non ne hanno bisogno, dicono i dirigenti delle aziende, perché oggi è il tempo della libertà, della autonomia, della flessibilità, non più richiesta dal datore di lavoro, ma dal lavoratore stesso, felice di pedalare come libero imprenditore.

Chissà cosa avrebbe detto mio padre? Anche lui si occupava della “polis”, dei problemi della comunità, perché era convinto che lo riguardassero sempre, anche quando non ne era direttamente coinvolto.

Anche Angelo, Amir e Gian Marco si sentono coinvolti, proprio come mio padre, e camminano veloci sotto il sole per portare la loro solidarietà a Francesco e dirgli che faranno un presidio davanti al Comune per chiedere di essere riconosciuti lavoratori e non imprenditori, per avere un contratto e una assicurazione generale, ma con loro non ci sono i grandi sindacati, né partiti politici che si battono per il diritto al lavoro.

Sono soli, auto-organizzati insieme ad altri fattorini e lavoratori precari solidali, capaci di trovarsi la sera per parlare dei loro problemi, per condividerli, per aiutarsi, per organizzarsi e avanzare richieste. Hanno capito che soli sono sconfitti e non potranno fare altro che adeguarsi. Oggi due euro a consegna, domani mezzo chilo di patate e un tozzo di pane.

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“Deliverance Milano” è il nome del collettivo che si sono dati e da oltre un anno lottano insieme per chiedere di essere riconosciuti lavoratori subordinati quali sono di fatto, anche se non legalmente. Lavoratori subordinati alla organizzazione del lavoro prodotta dalla azienda e non certo dal loro cellulare e dalla bicicletta.

Quando entriamo nella stanza, Francesco ci sorride nonostante il dolore e la madre accanto a lui ci accoglie col medesimo calore. Sulla maglietta azzurra che indossa sta il simbolo del Napoli che per poco ha perso lo scudetto a vantaggio della Juventus.

“Purtroppo devo dirti che sono juventino” confessa Angelo. “Anche mia madre lo è” risponde Francesco sorridendo. Sorridiamo anche noi.

Squilla il telefono. Francesco risponde. Lo salutiamo, gli stringo la mano e esco insieme agli altri. Riprendiamo il nostro cammino restando un po’ in silenzio, ognuno nei propri pensieri.

“E’ incredibile come sia Francesco a trasmetterti forza” dice ad un tratto Angelo.

Passiamo proprio accanto al Comune di Milano dove si terrà il presidio fra qualche ora. Adesso, però, c’è da andare a prendere gli striscioni e stampare i volantini. “Reclama i tuoi diritti!” dicono.

Oggi la società guarda con fastidio chi sciopera o occupa le strade per manifestare. Detesta qualsiasi cosa abbia sentore di istituzione, perfino un collettivo autorganizzato. Occuparsi della “Polis”, fare politica, è roba da illusi o peggio, da truffaldini, da arrivisti, insomma, affari da poltrona. Meglio starsene a casa e abbonarsi ad una pay tv.

Ma “l’isola che non c’è”, quella in cui “non ci son santi né eroi”, quella in cui “non c’è mai la guerra”, non esiste. Lo cantava Edoardo Bennato, e questi ragazzi, questi giovani nati senza più Contratti a tempo Indeterminato né art.18, lo hanno capito senza neanche ascoltare la canzone.

Nel tempo in cui abbiamo smesso di partecipare e abbiamo solo delegato, nel tempo in cui ci limitiamo a mettere il “like” su facebook, mentre perdiamo la pensione, loro hanno deciso di agire, questi fattorini e lavoratori precari hanno scelto di praticare quella cosa che è garanzia della salute di una democrazia e che le consente di trasformarsi: il conflitto.

Troviamo diverse persone al nostro ritorno, sotto Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. Ci sono biciclette e fattorini, giornalisti, solidali e ci sono le maestre precarie che rischiano di perdere il posto per una sentenza che le esclude dall’insegnamento dopo oltre dieci anni di precariato nelle scuole pubbliche.

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Mi avvicino a loro, mentre Angelo e Amir srotolano gli striscioni, e faccio l’ultima domanda.

“Cosa vi spinge ad essere solidali, ad essere qui anche se non siete fattorini?”

“Utilizzerò una parolaccia…. Solidarietà di classe. Riconosciamo nell’altro sfruttato la nostra condizione”

Di tempo ne è passato e l’Italia è cambiata, ma queste parole, ne sono certo, sarebbero piaciute a mio padre.


 

Incontro con Luca ‘O Zulù

RHO (MI) – Incontro con Luca Persico, in arte ‘O Zulù, in occasione del concerto eseguito a Rho alla vigilia del 25 aprile grazie alla organizzazione di una festa cittadina da parte di “Rho antifascista Antirazzista”. Luca ci ha raccontato del suo ultimo disco “Sono questo sono quello – Quant’ ne vuò”, frutto di un percorso di riscatto e di pace con se stesso che lo ha condotto a “mettere insieme i diversi aspetti” della sua personalità senza più conflitti.

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“La vita è nù mistero che è bello, perché è vero e va capì”

La musica e le canzoni diventano sempre nostre compagne, si legano ai nostri ricordi, accompagnano i nostri giorni e, infine, si trasformano in una colonna sonora, la nostra personale colonna sonora. Così le ricordiamo fischiettando, le scegliamo in base al nostro umore oppure ci capitano per caso come quelle che si sentono sulla spiaggia d’estate, ma restano sempre emozioni che si appiccicano ad altre emozioni, le nostre. E quando il connubio funziona, quando ci sentiamo in sintonia e bacchettiamo le dita sul volante per seguirne il ritmo, allora il nostro viaggio ha un suono che si aggiunge a quello del vento, e possiede parole che si confondono con le nostre.

Bastano poche note per ricordare, per farci sorridere o per commuoverci, per raccogliere i sogni che non abbiamo mai abbandonato o per sognare ciò che non abbiamo mai immaginato. A volte, sulle note sono le parole a conquistarci e le parole possono essere poesia, e la poesia può essere anche rabbia, riscatto, grido. Tu le ascolti e può capitare di sentirne l’eco dentro, come se ti appartenessero, come se fossero state scritte per quella volta in cui volevi “gridare fuori tutta la rabbia e uscire dalla gabbia”, come canta Luca Persico, in arte ‘O Zulù.

Già, nel mio personale viaggio, la musica e le parole di Luca e dei 99POSSE hanno uno spazio speciale. Sono come un ritornello, una tarantella, qualcosa che ritorna, che non va mai via, che non si dimentica, che si ha bisogno di riascoltare.

“Alzati, battiti, hai una sola scelta” me lo sono ripetuto più di una volta, e chi non lo avrà fatto quando cercava il coraggio per uscire dai suoi guai?

Le periferie, lo sfruttamento, l’emarginazione, i conflitti, la storia, l’identità, l’amore e l’odio, nelle parole di Luca scorrono rapide le immagini del Paese e della sua vita, fotogrammi nitidi, forti, capaci di raccontare le contraddizioni, di denunziare le ipocrisie, di sollecitare una reazione.

“E mi appartengono i morti nelle stragi di stato, assassinati, perché ho un passato, non vengo dal nulla”

Parole in italiano e parole nella sua lingua, quella di una città che ha sempre parlato al mondo anche senza volerlo, forte della sua cultura e della sua identità.

“Famiglie disgregate e a Torino, Milano, ‘o napuletano, terrone, ignorante, magnate ‘o sapone, lavate cu l’idrante e tuornatenne a casa, felice e cuntento, ce he fatto fa’ ‘e miliardi e nun he avuto niente”.

Il tempo passa e la discriminazione cambia. Quelli brutti, sporchi e cattivi sono altri oggi, sono quelli che vengono dal mare, dove “si muore cercando salvezza in un filo di brezza che ci indichi la direzione”

Oggi Luca canta Sono questo sono quello – quant’ ne vuò, frutto di un precedente progetto da solista che recitava “S(u)ono questo e s(u)ono quello”, e quando ho appreso che avrebbe suonato vicino Milano, a Rho, in occasione di una festa antifascista alla vigilia del 25 aprile, non ho avuto dubbi. Ho caricato le batterie, pulito l’obiettivo e mi sono presentato puntuale davanti al palco per riprendere il suo concerto.

E mentre stavo lì ad aspettare, mi domandavo perché non stringergli la mano e, magari, perché non intervistarlo. Già, che bello che sarebbe!

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Reportage diAlfredoComito

Reportage Il desiderio di raccontare la realtà

Reportage diAlfredoComito

Il desiderio di raccontare la realtà va al di là dei singoli fatti, della cronaca stringente, e abbraccia la società, i luoghi, le storie e i personaggi. Reportage nasce per questo. Dopo anni di cronaca sui conflitti, sulla politica, sulla città, ho pensato fosse giunto il momento di ritagliarmi uno spazio per condividere, con chi vorrà, la mia curiosità per ciò che ci circonda, che si intravede sullo sfondo o che sta oltre l’orizzonte. Del resto, i fatti che compongono nel loro insieme la storia, non possono essere ridotti alle date o ai titoli principali. I fatti, come tutti i fatti, sono composti da molte storie, da altrettante azioni, da numerosi incontri, da diverse parole, musica, tradizioni, avventure e personaggi. Ed è bene non procedere mai solo in linea retta, ma zizzagare, spostarsi di lato, esplorare senza pregiudizi. Infatti, come diceva il grande Antonio De Curtis, in arte Totò, “è la somma che fa il totale”.

Questo è il viaggio e ogni viaggio ha un inizio e le prime parole sono per tutti coloro che si sono resi disponibili, ai protagonisti dei racconti. Grazie. Ora tocca alle immagini

Filmmaker – Freelance

Iscritto al Ordine dei Giornalisti della Lombardia

Contatti: reportage.ac@gmail.com  –  sgrenco66@gmail.com